
Da tempo pensavamo di trattare il tema dell’Autenticità e della Spontaneità, molto presente sul Web e sui Social Network.
Spontaneità vs. autenticità secondo Francesca Cantaro
R. Premetto una cosa. Spontaneità e Autenticità sono due termini che non mi sono molto familiari, nel senso che non ho nessun interesse specifico ad usarli, né nella quotidianità, né in una dimensione psicologica o psicoterapeutica: come terapeuta non mi interrogo di come portare il paziente dentro questi due campi: non rappresentano, per me, un luogo dove andare. Al massimo possono essere una descrizione di come noi stiamo nel mondo, ma non sono due parole vive nel mio linguaggio, né come terapeuta, né come formatrice.
Sono comunque interessata a specificare quella che io intravvedo come differenza, facendo riferimento
- per l’autenticità a una cornice di carattere filosofico che è l’unico spazio in cui vedo presente questo termine
- per la spontaneità, ad una dimensione più psicologica, dicendoti cosa significa per me, dentro un quadro di personalità
Sempre di più provo una sofferenza, un’idiosincrasia per alcune parole che sono sempre più lontane dal loro senso originario, e sempre più estranee al processo di vita. C’è una sorta di desertificazione, non so come chiamarla, ma più che reificazione, di alcune parole, tra cui appunto “autenticità”, che mi addolora, mi inquieta: perché le parole sono sempre più impersonali, cosificate, sempre più lontane dal processo e sempre più oggetto, invece che fenomeno. Lo dicevi tu prima, ci sono espressioni come “essere se stessi” che non so cosa vogliono dire. Se un paziente si siede davanti a me e mi dice “Sto male perché non so chi sono” io sono molto contenta; mi sembra una bella notizia, che lui non sappia chi è. Perché è una notizia coerente col nostro essere nel mondo.
Non sapere chi siamo significa stare in un continuo divenire, che è proprio la nostra condizione esistenziale, visto che l’Identità non è qualcosa di afferrabile ma è una potenzialità, per me. Ma non solo per me, naturalmente, ci mancherebbe. Anche per la psicanalisi l’identità non esiste, esistono le identificazioni, con i vari ruoli della nostra esistenza; ma nessuna di queste coincide con ciò che chiamiamo la nostra identità.
Come direbbe Catalano! Lo dice la parola stessa: autenticità deriva da autòs che in greco significa “da se stesso”. Nell’autenticità c’è qualcosa che ha a che fare con il Sé, mentre spontaneità è qualcosa che a che fare con il latino sponte che significa “di propria volontà”, qualcosa che si fa volontariamente e naturalmente.
Partiamo da questo. Chi è spontaneo? Il bambino lo è in una prima fase della vita, quando ancora lo sguardo dell’altro non sta indicando quali sono le configurazioni necessarie che i suoi comportamenti, il suo essere nel mondo deve prendere per essere visto accettato, riconosciuto… Fino a che non si accorge di questo tipo di sguardo, il bambino è spontaneo. Cioè fa quello che in quel momento gli viene di fare: gli viene voglia di fare una cosa la fa, si muove con una naturalezza e una spinta verso un gesto, verso un movimento così com’è, perché lo sguardo dell’altro non ha ancora preso per lui una significazione di giudizio o di necessità di organizzazione. Quando l’avrà presa, dovrà cominciare a muoversi secondo delle aspettative, per essere riconosciuto.
Fino a quel momento, tutto quello che fa il bambino lo fa spontaneamente. Però dura poco questa situazione, perché il bambino si accorge che deve cominciare ad organizzare la sua configurazione comportamentale in modo che l’altro, come minimo, gli voglia bene, e comincia a perdere quel tipo di spontaneità e ad acquistarne un’altra, che potremmo chiamare “spontaneità secondaria”: comincia a muoversi in un modo che, a poco a poco, diventa perfettamente naturale, spontaneo si, ma automaticamente spontaneo. Cioè si è reso conto quali sono i comportamenti, i gesti, le parole che gli permetteranno di essere amato e comincerà ad organizzare i suoi movimenti in direzione dello sguardo dell’altro, soprattutto della madre e del padre.
È a questo punto che si configura quella che ho chiamato spontaneità secondaria, che è la formazione del carattere. Non c’è niente di più spontaneo del carattere. Solo che c’è una differenza: la spontaneità del carattere, cioè quello che noi facciamo in automatico, ha richiesto un grandissimo allenamento, una grandissima palestra. È come vedere danzare in un modo che ci appare spontaneo, o sentire suonare un pianista in un modo meraviglioso, e il movimento delle mani sulla tastiera ci appare naturale e spontaneo. Ma dietro a questo movimento così spontaneo c’è molto lavoro di allenamento fino a che i gesti divengono naturali.
Quando, erroneamente, diciamo che una persona si comporta in un modo spontaneo, intendiamo che si comporta in modo naturale rispetto al suo automatismo. Qualcuno può essere molto naturale e spontaneo quando aggredisce; oppure quando si vergogna, o sta ritirato, o è vanitoso. Sono tutte quelle configurazioni che sono diventate automatismi e per questo spontanee: la spontaneità consiste nel dare una risposta di cui non possiamo fare a meno, che ci anticipa e quindi senza avere la possibilità di scegliere. Quando noi non scegliamo – facciamo scegliere ai nostri automatismi – siamo assolutamente spontanei! Ma non è una spontaneità dell’essenza, come la spontaneità del bambino che si comporta senza essersi ancora accorto dello sguardo altrui.
È la nostra risposta al mondo, stabile, ripetitiva, e che diventa “figura” della nostra configurazione caratteriale. Che ha queste caratteristiche: di essere necessaria, assoluta e unica: “non posso che fare in quel modo…”. Nella spontaneità noi viviamo una dimensione dell’assoluto e del necessario.
Da questo punto di vista, completamente differente è quello che io vedo come autenticità (ripeto, pur non avvicinandomi facilmente a questo termine): se nella spontaneità troviamo la necessità, l’automatismo, l’assoluto e l’unicità, nell’autenticità troviamo la molteplicità, il divenire, il relativo, la differenza, lo “straniero” e la scelta continua.
Quindi, se vogliamo, possiamo vedere una linea quasi di polarità tra spontaneo e autentico; come fare per uscire da questo automatismo spontaneo finito, per entrare nello spazio infinito del divenire autentico? (preferisco non usare il termine autenticità: non può essere un sostantivo, è una modalità di stare nel mondo). Il primo presupposto è la molteplicità, che vuol dire che ci sono molte facce del mio essere nel mondo, e in questa molteplicità sta la continua possibilità, per me, di scegliere il mio progetto di mondo.
E qui si nota la cornice filosofica, perché chi parla in modo molto chiaro in questi termini è Heidegger, quando dice che tutti nasciamo inautentici, nel senso che entriamo in un mondo che già esiste, in un mondo a cui noi, necessariamente, dobbiamo adattarci per una questione di sopravvivenza. È il mondo che ci permette, nel momento in cui ci adattiamo, di farne parte e di sopravvivere. Come si fa a passare da un mondo che esiste già, ad un mondo che può ancora essere per noi? E qui Heidegger parla di come si fa a passare dall’essere inautentico ad un divenire autentico, ed è qui che parla di pro-getto, nel senso di pro-iacere, buttarsi in avanti: stare nel mondo guardando il mondo come un progetto di mondo, e continuando a scegliere il nostro orizzonte di senso, qualsiasi esso sia e continuamente.
E quindi le cose, gli oggetti, sono strumenti per il nostro progetto di mondo. Devono prendere una funzione, per noi, che è quella di farci progettare, continuamente, il nostro mondo, la nostra esistenza. E questo è scegliere, questo è disegnare continuamente orizzonti di senso, questo è un divenire autentico. E per progetto non intendo qualcosa che abbia a che fare con una procedura, progetto è come mi voglio dirigere verso un orizzonte di senso in questa vita, qual è la direzione che prendo. Il mondo è solo progetto di mondo, non è mondo: è mondo in quanto diventa progetto per me. Quindi il mondo, inteso come insieme di tutto ciò che lo costituisce, come qualche cosa che mi permette di esistere, di buttarmi in avanti, di muovermi: realizzare l’essere nel mondo.
Questo è per Heidegger essere autentico: non è un essere, è un come dell’essere. Non è una questione di identità, per la filosofia non esiste l’identità, esiste la nostra relazione al mondo che in Gestalt si chiama sé, ma non il Sé maiuscolo, la nostra relazione intesa come organismo-ambiente. In questo continuo dialettizzarsi di me come organismo con l’ambiente c’è l’accadere del mio sé, che è un processo, non è una cosa. Il processo esistenziale che in Gestalt si chiama adattamento creativo. Man mano che io organismo incontro l’ambiente e accade il processo del sé, io mi adatto creativamente a questo incontro e creo, man mano, il mio progetto di mondo. Che, ancora una volta, è effetto di una relazione.
Se non c’è questo incontro non c’è la realizzazione del sé che sceglie e non c’è il progetto di mondo. Faccio un esempio: quando parliamo di autenticità possiamo anche parlare di intenzionalità: con quale intenzione ti stai muovendo qui, a fare quello che stai facendo: in questa scelta lavorativa, o in questo percorso di formazione, o venendo da me a fare psicoterapia… qual è la tua intenzione, qual è la tua scelta di mondo, che mondo tuo vuoi progettare adesso con me ? e questo è un processo autentico, nel senso che tu stai scegliendo qualche cosa per te: qualcosa che parte da una tua intenzione e va verso un orizzonte di senso.
D. Ma quest’intenzione non potrebbe essere determinata dal mio carattere?
R. E certo, il punto è che, se è frutto del tuo carattere si vede molto presto che stai ripetendo… ricordiamoci che la ripetitività fa parte di quella spontaneità secondaria di cui parlavamo prima. Il mio consiste nell’aiutare l’altro ad uscire dalla ripetitività e avere una risposta di adattamento creativo alla sua relazione al mondo. Non può essere niente di ciò che ha già fatto, e questo è l’annusare la scelta, l’autenticità, perché non c’è nulla che si deve ripetere.
Devi uscire dai tuoi posti di certezza e di sicurezza, dai tuoi automatismi, e di entrare in quello che in Gestalt si chiama vuoto. Vuoto fertile, che consiste in qualcosa che ancora non c’è, e che ci sarà solo con la tua intenzione e con la tua creazione. Ma c’è anche un’altra cosa che permette di non finire in questa trappola: il presupposto dell’autenticità è la molteplicità, mentre il presupposto della spontaneità è il totalitarismo dell’automatismo; quindi la persona va aiutata da subito a capire che quello che già sa fare non è in gioco, e quello che è in gioco sono altre facce della medaglia, che vanno scoperte.
Per fare questo c’è anche un altro presupposto importante: riconoscere l’ambivalenza del nostro essere nel mondo. Quindi, come dice Hillman, il politeismo dell’anima, non il monoteismo, non l’assoluto, non “o…o” ma “e….e”. Fino ad ora lo hai fatto solo così, vediamo in che altro modo lo puoi fare che non sia quello. E quindi la persona deve essere aiutata a creare, non a ripetere e a riprodurre. Servendosi magari di facce sue, che potremmo chiamare potenzialità, risorse, modi di essere nel mondo, che sono state addormentate dagli automatismi, per la necessità della stabilità, della certezza. Gli automatismi danno certezza e stabilità e riconoscimento da parte degli altri. Mentre la molteplicità, nei luoghi comuni, è considerata contraddizione, inaffidabilità, dici una cosa poi ne dici un’altra….
Un altro concetto che sta dietro al divenire autentico è la differenza. Heidegger diceva che sempre più siamo omologati, e lo diceva ai suoi tempi, figuriamoci oggi cosa direbbe. In questa società dell’immagine, del web, dove non esiste più la comunicazione ma esiste l’informazione e la totale impersonalità. Lo chiamava il “si” anonimo: si pensa, si dice… Non esiste più il soggetto che sceglie, ma esiste l’immagine, la parola che sceglie te. Quella parola più usata, la parola più trasmessa… le parole ormai sono come dei passe-partout, tipo “mi piace” “non mi piace” di Facebook, è come una chiave di ingresso in quella che Heidegger chiama chiacchiera, dove manca completamente l’anima, manca la scelta, manca il progetto di sé. Immagine, impersonalità e tanta chiacchiera, che illude di avere tanta compagnia, che dà l’illusione di stare con gli altri; e invece purtroppo no, tanto è vero che la malattia psichica più diffusa è la depressione, perché questa configurazione di mondo è una configurazione di solitari; c’è la comunità di What’s App, la comunità di Facebook, che però non sono esistenziali ma nominali. È un’appartenenza nominata, ma non un’appartenenza come progetto di mondo. Oggi è molto difficile, poter dire che stiamo in un divenire autentico: siamo lontanissimi da questo, perché c’è una dittatura dell’immagine, del si impersonale, della solitudine e della riproduzione. Vedo persone che sono a pranzo, si collegano a Facebook e mandano la foto di quello che mangiano, poi fanno due passi ed altre foto…. Questo è terribile, davvero terribile. Non è omologazione, globalizzazione, ma è di più, è nientificazione. Dove tutto è a portata di mano, non ti lascio neanche immaginare dove sono… l’essere umano non è più immaginabile, è afferrabile, con una parola, con una foto…un oggetto, insomma… credo che, da questo punto di vista, il genere umano si stia avviando verso un disastro ecologico…
D.: Mi viene in mente quello che dice Galimberti a proposito della pubblicizzazione dell’intimità e la caduta della distinzione tra interiorità ed esteriorità, in cui il pudore viene a mancare e l’interiorità diventa un bene di consumo, come in programmi tipo Il Grande Fratello o L’isola dei Famosi…
R.: Si, non c’è più vergogna, non c’è più l’intimità… tutti possono avere tutto quello che gli passa per la testa, immaginando che stanno dicendo a qualcuno, ma non stanno dicendo a nessuno. Come dice Lévinas, se non stiamo dicendo a qualcuno, ma qualcuno specificamente, guardandolo negli occhi … questo è insostituibile… Si tratta di comunicazione nel senso di mettere in comune, a chiunque possiamo dire la stessa cosa: non è dire a te, è dire a chiunque, e questo non ha relazione con il divenire autentico. Tutto questo è diventato spontaneo, tutto questo è diventato automatico, è automatico il clic su Internet. Mettiamo che tu mi chieda al telefono, ad esempio, cosa significa “sensazione”? io sto parlando al telefono con te e digito “sensazione” su internet, e te lo dico, è già afferrabile, non c’è lo spazio dell’attesa, e se non c’è l’attesa non c’è eros, non c’è investimento e quindi non c’è piacere, non c’è creatività, non c’è idea. Ci sono solo cose, oggetti afferrabili e automatismi. E tutto questo diventa spontaneo, perché diventa automatico.
D. Il fatto che manchi l’eros dà origine a studi e adolescenze molto piatte…
R.: Si, infatti anche gli adolescenti vengono ormai colpiti da depressione, attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione. Senza eros gli adolescenti perdono la creatività, se non c’è un’attesa nei confronti di un concetto da afferrare, un’idea da realizzare, ma tutto è vicino, troppo vicino, e a portata di mano, manca quella distanza che ti fa sognare, che ti fa desiderare… non c’è l’atto creativo perché non c’è il sogno, non c’è l’ispirazione… non c’è il sogno individuale e non c’è nemmeno il sogno collettivo… e questo è drammatico. Non voglio essere catastrofica, ma percepisco una decadenza, in questo senso, dell’animo umano, e una grande solitudine. Se viene a mancare il sogno, manca l’ispirazione: il sogno non serve per essere realizzato, ma serve per ispirare… Autenticità significa progettare un modello di mondo, ma se non sappiamo che modello di mondo abbiamo? Secondo Recalcati, questo è un mondo senza desiderio.
R. Secondo me si. Perché la tecnologia ha soddisfatto troppo l’esigenza che l’essere umano ha di dialettizzare, il bisogno dell’oggetto. Noi abbiamo bisogno dell’oggetto, in tutti i sensi, e il lavoro grosso è quello di liberarsi dell’oggetto e di entrare in relazione con l’oggetto; di scegliere l’oggetto a partire dall’effetto che ci fa, scegliendo quindi a partire da noi. Invece, con la tecnologia, l’oggetto ha scelto noi. Il mondo ha perso la sua funzione di progetto, ed ha acquisito sempre più la funzione di oggetto. Non con una funzione desiderante, ma con una funzione realizzante: il fare, subito, immediatamente. Altro che società dei media: è una società dell’immedia, dell’immediato.
Ma dentro di noi non succederebbe questo autenticamente: dentro di noi le cose non accadono immediatamente, non siamo organizzati così. Le cose ci fanno un effetto, ce ne rendiamo conto, e in base a questo effetto ci muoviamo. Siamo stati un po’ strappati, da questa dialettizzazione interna che sarebbe continua, ad una unità: la metafisica non dell’essere ma dell’oggetto, che diventa l’assoluto, la cosa da avere.
E tutto questo, in qualche modo, come un canto delle sirene, ci ha allontanato da noi stessi portandoci via un po’ della complessità del nostro mondo interno, è stato troppo facile raggiungerlo… ora anche le parole sono diventate cose, immediatamente afferrabili… vedi, ad esempio, i discorsi dei politici: non ti aprono al progetto, ma ti danno subito l’idea di avere davanti dei risultati immediati di qualcosa che stanno facendo e che hanno ottenuto: non ti aprono lo spazio di un progetto politico, di un progetto di mondo, ma un buffet di oggetti, l’aumento di questo, la diminuzione di quell’altro, tutte cose già confezionate. Un mondo confezionato, che ti toglie il sogno e l’ispirazione di come fare tu ad usare gli strumenti per fare un progetto di mondo tuo.
Tornando ad una cosa che tu avevi detto, riferendoti a quanti esortano ad essere se stessi, io penso che non sappiano quello che stanno dicendo. Non perché io lo sappia, non lo so neanche io che cosa voglia dire essere se stessi. Quello che so è che mi sento in un movimento autentico quando sto dentro uno spazio che mi sta corrispondendo il più possibile. Il più possibile, perché io non sono libera, la libertà è un’illusione: anche se esiste sicuramente il libero arbitrio, le nostre scelte sono sempre limitate, dipendono dalla nostra esistenza, dal nostro corpo, dalla morte. Un altro elemento importante per l’autenticità è l’esistere rendendosi conto continuamente di dover morire, quindi esistere come un progetto finito. Questo elemento fa perdere al nostro progetto di mondo l’onnipotenza, la grandiosità e l’eternità.
D: Per associazione, mi vengono in mente varie teorizzazioni sulla personalità, che partono comunque dal concetto di Assagioli del Sé superiore…
R: Io condivido completamente l’approccio Gestaltico; dal mio punto di vista il sé è un processo, io non contemplo nulla che sia definito. Per me il nostro esserci, essere nel mondo è un processo in continuo divenire, quindi anche il sé è un processo. Noi siamo effetto della relazione tra il nostro sé e il mondo, quindi non possiamo definirci mai una volta per tutte. Non pretendo di vedere una realtà, ma questo è quello che io vedo, Assagioli vedeva altro. Faccio fatica a vedere le cose o le identità come oggetti, vedo le relazioni. Questo non è il mondo, è il mondo che io vedo. Ma lo vedo così, lo vedo sempre di più profondamente così.
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Grazie Fabrizio e Francesca!
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Grazie a te!