Superare i limiti della performance: l’importanza di commettere errori.
Come superare i limiti della performance? Questa domanda è fondamentale nella pratica del Coaching, il cui obiettivo è sempre un miglioramento della performance. Quando impariamo a fare qualcosa, per un po’ di tempo continuiamo a perfezionare la nuova capacità e a diventare sempre più bravi. Può trattarsi dell’imparare ad andare in bicicletta, della pratica di uno sport, dell’esercizio di una capacità in ambito professionale.
Quando raggiungiamo un determinato livello, però, smettiamo di progredire, quasi ci fossimo imbattuti in qualcosa di invalicabile.
Sommario
Il limite della performance: come si può superare?
Gli uomini nuotano e corrono, probabilmente, da quando abitano il pianeta Terra, e hanno quindi avuto un bel po’ di tempo per perfezionarsi e diventare bravissimi e velocissimi. Nonostante questo, assistiamo ogni anno a nuovi record nel nuoto e nella corsa, tanto che una prestazione che agli inizi del secolo avrebbe garantito una medaglia d’oro alle Olimpiadi adesso non basterebbe nemmeno per qualificarsi in una competizione dilettantesca regionale.
Da questo punto di vista, osservando i record continuamente superati in tutte le discipline sportive, potremmo concludere che, se esistono dei limiti fisiologici a ciò che possiamo fare, come specie non li abbiamo ancora raggiunti.
Limiti psicologici
Un esempio molto conosciuto si riferisce al primato sul miglio (che equivale a 1.609 metri). Il record mondiale era di 4 minuti e 01, da molti anni, e pareva proprio che si fosse raggiunto un limite che nessuno avrebbe superato.
Roger Bannister, il 6 maggio 1954, corse il miglio in 3’59”4, convincendo tutti, con i fatti, che correre il miglio in meno di quattro minuti era possibile. Ma questo
nuovo record del mondo resse solamente 46 giorni, e, nei sei mesi successivi, venne superato da diversi atleti.
Spesso ci convinciamo che il livello che abbiamo raggiunto coincida con le nostre massime potenzialità, che non possa essere superato a causa di limiti fisiologici, iscritti nel nostro DNA: ciò che facciamo coincide con ciò che possiamo fare.
K.A.Ericsson e altri psicologi che si sono occupati di prestazioni eccezionali non sono d’accordo: ritengono che la barriera non corrisponda a limiti innati oggettivi, quanto al livello di prestazione che la persona ritiene accettabile per se stessa. E’ il livello in cui la persona decide di aver imparato abbastanza, e decide di passare al “pilota automatico”, smettendo di progredire.
Quando si impara a battere a macchina, si passa dallo sbattere scompostamente un dito sulla tastiera a usare le due mani con attenzione, fino a che l’azione diventa talmente fluida che sembra che le dita si muovano per volontà propria (non è il mio caso, decisamente). A questo punto il neo dattilografo si stabilizza, e non progredisce più.
Il pilota automatico
Per tentare di spiegare questo calo nella curva di apprendimento, Fitts e Posner, descrissero i tre stadi attraverso cui una persona passa quando apprende e pratica una determinata capacità:
Tre stadi dell’apprendimento
Nello “stadio autonomo” noi pratichiamo la capacità con il “pilota automatico” inserito, senza nessuna attenzione cosciente (nei corsi di PNL lo chiameremmo Competenza Inconscia). Naturalmente questo è un meccanismo sano, che l’evoluzione ha messo a punto a nostro vantaggio: meno la mente si focalizza sulle mansioni ripetitive della vita quotidiana, più si può concentrare sulle cose importanti e sconosciute.
Ma quando abbiamo raggiunto questo stadio, abbiamo smesso di progredire, ed è importante sottolineare che il livello di stabilizzazione ottimale viene raggiunto in quasi tutte le attività che svolgiamo.
Ericsson e colleghi si sono impegnati nel trovare una risposta alle domande:
come si possono superare questi limiti?
come si può evitare di raggiungere il nostro livello di stabilizzazione ottimale?
A questo scopo, hanno preso in esame due diversi atteggiamenti nei confronti delle proprie capacità, distinguendo tra:
«dilettante», che si accontenta del livello raggiunto,
«esperto», che si impegna costantemente nel migliorare la propria performance.
La “pratica intenzionale”
Ciò che caratterizza gli “esperti” è l’impegno in un esercizio quotidiano molto mirato: la pratica intenzionale.
La pratica intenzionale deve essere, per sua natura, difficoltosa per sviluppare l’attenzione: quando un musicista con un atteggiamento da dilettante si esercita, di solito, suona qualche brano piacevole da eseguire, mentre l’esperto esegue noiosissimi esercizi o si concentra su alcuni passaggi difficili. I migliori pattinatori su ghiaccio si allenano provando i salti che eseguono più raramente, mentre i dilettanti perfezionano quelli che conoscono già.
In pratica, l’esperto elabora una serie di strategie per evitare lo stadio autonomo e per rimanere allo stadio cognitivo:
Si concentra sulla tecnica
Non perde mai di vista l’obiettivo finale
Ricerca un feedback immediato e costante sulle sue prestazioni (l’importanza di ottenere un feedback immediato è già stata sottolineata nel post sullo Stato di Flow)
Per ogni settore di competenza esaminato (scacchi, violino, baseball….), il numero di anni speso a praticare una certa disciplina non influisce granché sul livello delle prestazioni. Per diventare esperti in un determinato campo, quindi, non conta tanto quanto ci si esercita, ma come. La pratica costante non è sufficiente. Per imparare, dobbiamo osservarci mentre sbagliamo e imparare dai nostri errori.
I radiologi che leggono una mammografia sono molto più precisi e veloci quante più mammografie leggono: il sistema di riconoscimento di pattern nel loro cervello è stato allenato, e riconosce in modo automatico i pattern di eventuali tessuti anomali. Le persone diventano esperte sviluppando sistemi automatici di pattern recognition per un compito particolare. (Michael Gazzaniga)
Secondo Ericsson, il modo migliore per tenersi alla larga dalla stabilizzazione ottimale è esercitarsi a commettere errori.
Gara di dattilografia: “Tutti pazzi per Rose”
Ad esempio, superare il livello di stabilizzazione ottimale nel campo della dattilografia è abbastanza semplice: occorre battere a macchina ad una velocità superiore a quella che risulterebbe agevole, concedendosi di commettere errori.
In un celebre esperimento, ai dattilografi vennero mostrate parole con una rapidità superiore del 10-15% a quella con cui le loro dita riuscivano a tradurle sulla tastiera. In capo a qualche giorno individuarono gli ostacoli che li rallentavano, li superarono e continuarono a battere sui tasti alla nuova velocità.
Uscendo dallo stadio autonomo e rientrando nello stadio cognitivo avevano disinnescato il pilota automatico, dandosi la possibilità di migliorare ulteriormente.