Un risveglio spirituale per superare le dipendenze
Un risveglio spirituale
Ricordate questo bel film di Ken Loach? Un po’ difficile, sono passati 19 anni.
Il titolo del film è la frase con cui gli Alcolisti Anonimi si presentano prima di un loro intervento: “Mi chiamo Joe e sono un alcolista”.
Poco importa che la persona che parla non tocchi alcolici da decenni, la formula di presentazione non cambia.
Questa impostazione è dovuta ai cosiddetti 12 passi, elaborati dai fondatori di Alcolisti Anonimi.
L’Associazione Alcolisti Anonimi (A.A.) è diffusa in tutto il mondo da molti anni e ha conseguito innumerevoli successi.
In questo articolo vogliamo presentare il percorso di crescita personale che propone ai suoi membri, con l’idea che molti aspetti di quel programma possano essere utili a ciascuno di noi.
Oltre ad Alcolisti Anonimi, esistono diverse altre Fratellanze Internazionali che applicano il programma dei 12 passi:
- Al-anon, che si occupa dei familiari degli alcolisti,
- Narcotici Anonimi,
- Familiari Anonimi, che si occupa dei familiari dei Tossicodipendenti,
- Mangiatori compulsivi,
- Giocatori d’azzardo compulsivi,
- Co-Dipendenti Anonimi, che si occupa delle dipendenze affettive,
- Debitori Anonimi,
- Emotivi Anonimi (dedicato a persone che hanno difficoltà a gestire la propria emotività),
- Sessodipendenti Anonimi,
- e varie altre.
I successi del programma dei 12 passi di fronte a tematiche tanto diverse ci fa pensare ad una certa universalità, e alla possibilità di generalizzarne alcuni aspetti alla condizione umana tout court.
La nascita di Alcolisti Anonimi. Bill e Bob, i fondatori. Il contributo indiretto di C.G. Jung.
Come nasce questo programma di recupero? E’ molto importante, anche se in modo indiretto, il contributo di C.G. Jung.
Infatti nel 1931, un paziente affezionato di Jung, Roland H., non riusciva a smettere di bere. Jung, dopo diversi fallimenti, ebbe un’idea apparentemente bizzarra: consigliò a Roland di iniziare a frequentare l’Oxford Group, un movimento evangelico cristiano che proponeva un totale asservimento al volere di Dio.
Probabilmente Jung aveva letto il libro di William James, “Le varie forme dell’esperienza religiosa” nel quale vengono analizzate un vasto numero di esperienze religiose o di conversioni, con l’obiettivo di dimostrare la loro fondatezza e validità anche con riferimento all’affrancamento dall’alcolismo, con guarigioni stabili.
I casi descritti da James avevano alcune caratteristiche in comune:
- Il primo dei tre denominatori comuni era la calamità, il disastro: tutte le persone descritte avevano subito una grave disfatta che in nessun modo erano riusciti a risolvere, e questo aveva loro provocato una totale disperazione.
- Un’altra caratteristica in comune era l’ammissione della sconfitta e della propria totale impotenza.
- Il terzo denominatore comune era la necessità di fare appello a un Potere Superiore: questa esigenza poteva assumere molte forme ed essere espresso in modi tra loro molto diversi, in termini religiosi o non religiosi.
Comunque Roland, il paziente di Jung, si convertì e riuscì finalmente a smettere di bere.
Anni dopo si ritrovò a parlare della propria esperienza con Bill, un amico, anch’egli alcolista. Anche Bill riuscì a convertirsi e a smettere di bere, ma per mantenere la propria sobrietà sentì l’esigenza di condividere le sue esperienza con qualcuno. Iniziò a parlarne con Bob, e da questa relazione nacque Alcolisti Anonimi.
Anni dopo Bill scrisse a Jung poco prima della sua morte, per rivelargli l’inconsapevole contributo che aveva dato alla nascita di Alcolisti anonimi. Jung rispose, e riportiamo alcuni brani della sua lettera:
“Caro Signor Wilson, la sua lettera è stata davvero gradita.
Non avevo più notizie di Rowiand H. e spesso mi sono chiesto quale fosse stato il suo destino. La nostra conversazione, che lui Le ha adeguatamente riferito, aveva un aspetto di cui lui non era a conoscenza. Il motivo per cui non fui in grado di dirgli tutto era che in quei giorni dovevo stare molto attento a quello che dicevo: avevo infatti appreso che le mie idee venivano fraintese in tutti i modi. Perciò, quando parlai a Rowland H., stetti molto attento, ma quello che pensavo veramente era il risultato di molte esperienze con persone del suo genere.
Il suo desiderio insaziabile di alcol era l’equivalente, a un livello più basso, della sete spirituale che il nostro essere ha della totalità. Essa, espressa in linguaggio medievale, è l’unione con Dio.
Come si potrebbe formulare questa intuizione, usando un linguaggio che non sia oggi frainteso?
L’unico modo legittimo e giusto perché questa esperienza accada nella realtà, è quello di camminare sul sentiero che conduce ad una comprensione superiore. Questo obbiettivo può essere raggiunto attraverso un atto di grazia, un contatto onesto e personale con amici, oppure grazie a un atteggiamento mentale che superi i confini della mera razionalità. Vedo dalla sua lettera, che Rowland H. ha scelto la seconda via che, date le circostanze, era ovviamente la migliore.
Sono fermamente convinto che il principio del male, prevalente oggi nel mondo, trasformi il bisogno spirituale non soddisfatto in perdizione, se esso non viene neutralizzato da un’autentica intuizione religiosa o dal muro protettivo di una comunità umana. L’uomo normale, non protetto da un’azione che giunga dall’alto e isolato nella società, non può resistere al potere del male, che è chiamato ‘Diavolo’ in modo molto appropriato. Ma l’uso di parole come questa origina tali e tanti errori, che è necessario tenersene a distanza quanto più è possibile” (C.G. Jung, Lettera a Bill Wilson)
Jung riteneva che gli esseri umani fossero delle creature psicosomatiche, che devono preoccuparsi dei fatti dello spirito esattamente come fanno per il loro corpo. Inoltre, la nostra psiche non è personale: è connessa a quella degli altri, sia con coloro con i quali visibilmente interagiamo, sia con coloro che sono venuti prima di noi, attraverso le dinamiche dell’inconscio collettivo.
La vita va avanti bene quando questi collegamenti sono aperti, e questi flussi danno un senso e uno scopo. Al contrario, se ci sono dei blocchi, essi possono portare a problemi di salute, con manifestazioni somatiche e psicologiche. “Una psiconevrosi deve essere intesa, in ultima analisi, come la sofferenza di un’anima che non ha scoperto il suo significato”, ha scritto Jung, in un saggio argutamente intitolato “psicoterapeuti o il Clero”.
Altri osservatori della condizione umana hanno fatto rilievi simili. Bertrand Russel, che era piuttosto dissimile da Jung riguardo al bisogno di spiritualità, nondimeno notò che le persone più felici “si sentono parte del flusso della vita, non delle entità rigidamente separate, come una palla da biliardo, che non può avere relazione con altri oggetti simili, se non durante una collisione”. Queste persone si sentono “cittadini dell’universo”. (Mark Vermon, The Guardian)
Fabio Anibaldi Cantelli sulla ricerca di autotrascendenza
Sempre a proposito di risveglio spirituale, riportiamo un brano tratto da un articolo, che tratta di tossicodipendenza, di Fabio Anibaldi Cantelli su Le Città invisibili:
“L’autotrascendenza
La parola autotrascendenza mi ha infatti rivelato quello cercavo, e con me milioni di ragazzi che in quegli anni si sono giocati la vita sedotti dal canto delle sirene. Autotrascendenza è la parola giusta perché dice che cercavamo non solo il piacere o una medicina al male di vivere – come si crede perlopiù – ma quel sentimento di appartenenza e fusione col Tutto che in un passato remoto, indefinibile, ci pareva d’aver provato e il cui richiamo si faceva tanto più impellente quanto più sentivamo soffocante il vestito dell’io: armatura più che vestito, pozzanghera che pretende di contenere l’oceano, prigione che a furia di raccontarsi come giardino finisce per credere di esserlo. Ma perché è nell’adolescenza che si avverte quel bisogno di superarsi, di trascendersi? Credo per due motivi, complementari.
Primo perché da adolescenti si sente per la prima volta la lacerante distanza dal mondo degli adulti e a volte anche dei coetanei, distanza che può diventare conflitto. Secondo, perché nell’adolescenza è ancora vivo il segno – non dico il ricordo, perché in quei momenti non eravamo ancora “noi” – dell’esperienza da cui tutta l’umanità è passata e passerà, il che spiega da un lato l’uso millenario delle droghe in quanto veicoli che quell’esperienza riproducono, dall’altro il loro uso massificato in un mondo che quell’esperienza ha cancellato e poi rimosso. Di quale esperienza sto parlando? Beh, immagino sia chiaro, a questo punto: dei nove mesi passati nel grembo materno. È lì che per la prima volta abbiamo provato quel sentimento di fusione col Tutto che Romain Rolland definì “oceanico” suscitando la perplessità di Sigmund Freud, troppo occupato a sezionare scientificamente l’Io per accettare l’ipotesi di una vita del tutto inconscia, allo stato puro, per di più capace di condizionare quella cosciente fino alla morte.
Auto-trascendenza è la parola giusta: dice che cercavamo non solo il piacere o una medicina al male di vivere, ma quel sentimento di appartenenza e fusione col Tutto che in un passato remoto, indefinibile, ci pareva d’aver provato: l’esperienza dei nove mesi nel grembo materno
È questo che abbiamo cercato nelle droghe ed è per questo che non si può affrontare il problema della droga e dei suoi danni senza un radicale ripensamento di una società che in nome della ragione economica ha perso ogni legame col sacro. Non mi si fraintenda: sacro non vuol dire “al di là” ma aldiqua, finestra aperta sull’infinito che permette al nostro povero io ogni tanto di sporgersi e placare la sua sete, sentirsi investito da quel Tutto da cui proviene e a cui spera di tornare. In una parola: di essere felice. Si pensi solo ai “riti di passaggio”, esperienze anche traumatiche che le società avvedute hanno ideato per celebrare la gloria della nascita e ridimensionare la beatitudine di ciò che l’ha preceduta, riti ridotti e poi azzerati in nome del diritto “moderno” a autodeterminarsi. Risultato: la gioventù, che attraverso la durezza del rito scopriva la sua anima e manteneva la sua diversità (sviluppando una vita adulta in sintonia con le sue attitudini), è diventata una pappa indistinta spalmata su tutte le età. Si vuole e si può essere giovani a vita, col risultato di aver ridotto la gioventù a maschera, se non a caricatura.”
I 12 passi del programma di Alcolisti Anonimi:
- Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano divenute incontrollabili.
- Siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione.
- Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura di Dio, come noi potemmo concepirlo.
- Abbiamo fatto un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi.
- Abbiamo ammesso di fronte a Dio, a noi stessi e a un altro essere umano, l’esatta natura dei nostri torti.
- Eravamo completamente pronti ad accettare che Dio eliminasse tutti questi difetti di carattere.
- Gli abbiamo chiesto con umiltà di eliminare i nostri difetti.
- Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo diventati pronti a rimediare ai danni recati loro.
- Abbiamo fatto direttamente ammenda verso tali persone, laddove possibile, tranne quando, così facendo, avremmo potuto recare danno a loro oppure ad altri.
- Abbiamo continuato a fare il nostro inventario personale e, quando ci siamo trovati in torto, lo abbiamo subito ammesso.
- Abbiamo cercato attraverso la preghiera e la meditazione di migliorare il nostro contatto cosciente con Dio, come noi potemmo concepirlo, pregandolo solo di farci conoscere la Sua volontà nei nostri riguardi e di darci la forza di eseguirla.
- Avendo ottenuto un risveglio spirituale come risultato di questi Passi, abbiamo cercato di portare questo messaggio agli alcolisti e di mettere in pratica questi principi in tutte le nostre attività.
Si parla di impotenza e di vita divenuta incontrollabile, superando definitivamente la negazione del problema.
Nel primo passo si impara anche che l’alcol non è un vizio ma una malattia, di cui non si ha nessuna responsabilità. Ma se non si è responsabili della propria malattia si è responsabili del proprio recupero.
Il punto di partenza, quindi, è capire che l’uomo non può controllare tutto nella vita, incluso se stesso. Il fatto di non riuscire a regolarci da noi stessi dovrebbe indirizzarci verso un Potere più alto.
AA non propone una forma di religione (e non è in conflitto con nessun credo): tutto quello che è richiesto è di avere una mente aperta all’idea che ci sia qualcosa di più grande e forte della volontà del singolo. Alcuni scelgono di identificare il Potere Superiore, il “Dio come possiamo concepirlo”, con la semplice forza del gruppo di alcolisti sobri, certo più grande di quella del singolo alcolista, e questo è sufficiente per il percorso di recupero.
Nei rimanenti passi si parla prevalentemente di
- condivisione,
- inventario morale,
- ammissione dei propri difetti,
- ammenda per i torti fatti,
- perdono per quelli subiti,
- meditazione e preghiera.
Cosa ne pensava Bateson
Anche Gregory Bateson si è occupato di AA, nel saggio”Cibernetica dell’io: una teoria dell’alcolismo”, contenuto in “Verso un’ecologia della mente”.
Secondo Bateson l’alcolismo deriva da un modo di vedere non-sistemico, che i 12 passi correggono.
Approfondimenti:
- Spiritualità New Age: un modo di superare la solitudine che non può funzionare
- Vivere in un mondo complesso
- Sistemi complessi e autorganizzazione
- Quando il tentativo di soluzione è il problema
- La capacità di dare e ricevere i feedback
Analisi dell’alcolismo
- Molto spesso parenti ed amici dell’alcolista lo spingono ad “essere forte” e a “resistere alla tentazione”. Lo stesso alcolista, nei momenti di sobrietà, concorda con questa visione del problema. Si fa riferimento ad un conflitto tra spirito e materia, tra l’Io cosciente e il resto della personalità. Se non sei forte, se non sai resistere allora sei dipendente, non libero!
- L’ “orgoglio” dell’alcolizzato non si basa su successi avuti in passato, non è l’orgoglio per qualcosa che si è compiuto. L’accento non è su “Io sono riuscito…” ma su “Io sono capace…”. Inoltre l’orgoglio dell’alcolizzato colloca l’alcolismo fuori dall’io: “Io sono capace di oppormi al bere”. Quindi la dimostrazione della indipendenza e libertà sta nella mia capacità di decidere quando essere sobrio e quando bere…
- Ritenersi “capace di mantenersi sobrio” da parte dell’alcolista è ciò che lo predispone alla prossima sbornia. AA ristruttura questa credenza ripetendo che “Una volta alcolizzati, si è alcolizzati per sempre”.
- “Cercare di impiegare la forza di volontà è come cercare di sollevarsi tirandosi su con i lacci delle scarpe”.
- Se lo stato di sobrietà dell’alcolizzato lo spinge in qualche modo a bere, non ci si può aspettare che un metodo che rinforzi il suo particolare modo di essere sobrio (che faccia appello alla sua forza di volontà) possa ridurre o controllare il suo alcolismo. Inoltre in questo particolare modo di essere sobrio ci deve essere un qualche errore o una qualche patologia. Allora il ricorso alla sostanza, dal punto di vista dell’alcolizzato, serve a rimediare a questo errore, rappresenta un correttivo.
- Importante notare che l’errore alla base del tentativo dell’alcolista di mantenersi sobrio, cioè la retorica del controllo e del conflitto interiore, è lo stesso che permea il modo di pensare della società occidentale: l’alcolizzato, il dipendente, è solo più sensibile degli altri a queste premesse errate. Premesse che vengono superate dai primi 2 passi:
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- Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano divenute incontrollabili.
- Siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione.
- «Il socio [di A.A.] non è mai stato schiavo dell’alcool. L’alcool è semplicemente una fuga dalla schiavitù personale dei falsi ideali di una società materialistica» (B. Smith).
- Non è che egli si rivolti contro gli insensati ideali che lo circondano, ma piuttosto sfugge alle sue proprie insensate premesse, che vengono continuamente rinforzate dalla società circostante.
- La “dipendenza dell’alcolista” è la ricerca di uno stato di ebbrezza che è sollievo di sentirsi parte di un tutto più grande sul quale non può esercitare alcun controllo; una sorta di nostalgia di una visione spirituale.
La filosofia di AA nella descrizione di Bateson
- Esiste un Potere più grande dell’io. Il rapporto di un individuo con questo “potere” viene definito nel modo migliore con le parole “l’individuo è parte di”.
- Ciascuno si sente intimamente legato a questo Potere. È «Dio, come noi potemmo concepirLo». E il modo di essere in relazione a questo potere è soggettivo. Il rapporto in cui “io” mi trovo rispetto a un qualunque sistema più vasto che mi circondi e che comprenda altre cose e persone, sarà diverso dal rapporto in cui “tu” ti trovi rispetto a un sistema simile che circondi te.
- Si scopre un rapporto ”favorevole” con questo Potere, tramite il “toccare il fondo” e la “resa”.
- Resistendo a questo Potere, gli uomini, e in particolare gli alcolizzati, si attirano addosso il disastro. La filosofia materialistica, che vede l’uomo ergersi contro l’ambiente, sta rapidamente crollando a mano a mano che l’uomo tecnologico diviene sempre più capace di opporsi ai sistemi più grandi. Ogni battaglia da lui vinta porta una minaccia di disastro. L’unità di sopravvivenza (sia nell’etica sia nell’evoluzione) non è l’organismo o la specie, ma il più ampio sistema o “potere” in cui la creatura vive: se la creatura distrugge il suo ambiente, distrugge se stessa.
- Tuttavia – e ciò è importante – il Potere non premia e non punisce, non ha “potere” in questo senso: per dirla con la Bibbia, “tutte le cose cooperano al bene di coloro che amano Iddio”. E, viceversa, di coloro che non lo amano. L’idea di potere nel senso di controllo unilaterale è estraneo all’AA.
La cibernetica andrebbe un po’ oltre e riconoscerebbe che l’ “io” com’è ordinariamente inteso è solamente una parte esigua di un sistema funzionante ‘per tentativi ed errori’ molto più grande, che pensa, agisce e decide (…) La cibernetica riconosce anche che due o più persone (un gruppo qualunque di persone) possono formare insieme un sistema pensante e agente di questo tipo. (G. Bateson)
Il punto decisivo non è credere, ma è trascendere se stessi, superarsi, vivere per qualcosa di più grande del piccolo sé, e quindi essere in grado di esaminarsi, di pesarsi, di soppesarsi, di porre se stessi sulla bilancia mettendo su un piatto la vita reale e sull’altro la vita ideale, giungendo alla vera conoscenza di sé e soprattutto all’azione virtuosa, alla pratica del bene e della giustizia. Poi per qualcuno questo trascendimento di sé condurrà alla trascendenza pensata in senso teologico, cioè all’esistenza della Divinità; per altri no, rimarrà solo un auto-trascendimento senza nessuna trascendenza reale. Ma questo, a mio avviso, lo ripeto, è secondario. L’essenziale è che questo auto-trascendimento si dia e che si giunga così a percepire il desiderio e la forza di essere migliori. (Vito Mancuso)